La pratica degli yana

La pratica integrata delle tre discipline dello Yoga Evolutivo sviluppa la connessione e la sinergia dei diversi livelli di funzionamento dell’essere umano (percezione, intuizione, sentimento, pensiero, coscienza che osserva), con l’obiettivo di rendere stabile nel praticante la presenza nell’azione e nella relazione. Durante la pratica si propone agli studenti di osservare se stessi all’interno dell’esperienza (per esempio, la pratica dello yoga) e l’osservazione deve progressivamente diventare approfondita (mentre spesso è superficiale), stabile (mentre spesso è discontinua), ampia (mentre spesso è settoriale), non concettuale, non giudicante.

La pratica delle tre discipline dello yoga evolutivo, Tejas-yana, Vairagya-yana ed Ekatva-yana, si basa sull’uso di tecniche che potenziano il contatto. Esso [il contatto] si sviluppa nel silenzio dell’esperienza scelta e nell’autonomia interiore della meditazione relazionale. L’Ekatva-yana, a differenza degli altri due yåna, si mostra apparentemente nell’individualismo di una pratica solitaria e non sottolinea l’importanza della relazione, ma in realtà, finché la solitudine di questa pratica non riconosce e non introietta il due, di Ekatva-yana non si può parlare, e nemmeno semplicemente di yoga in quanto unione. Ciò che fa muovere l’essere umano nell’esistenza è il suo irrefrenabile desiderio di contatto e, al tempo stesso, l’enorme terrore di contatto. Andare oltre la paura di contatto significa imparare a vederla, cosa non facile; ma il processo che porta ad accettarla è una ricerca di completezza, una ricerca di felicità, una ricerca della radice.
(da Trasformare la mente p. 117)

Praticando Tejas-yana tentiamo di disequilibrare l’avversario, facendo apparire a lui e agli altri membri della scuola i suoi punti di vulnerabilità e al tempo stesso di copertura di quella vulnerabilità; questo è possibile mettendo in evidenza gli equivoci abituali dell’avversario. Dopo averlo squilibrato, tentiamo di entrare, con un soffio di energia, nella breccia apertasi, includendo in noi la disarmonia evocata senza farsene turbare e rimanendo in armonia con noi stessi. Entreremo così in uno spazio di calma interiore che consente di anticipare gli attacchi invece di evitarli, dirigendosi verso il luogo più confortevole dove la competizione sia stata contattata, costruttivamente impiegata e trascesa. La pratica di una disciplina fisica appropriata permette di verificare quanto si tenga effettivamente a una ricerca, ricerca che è reale nella misura in cui si accetta che la meta non possa essere conosciuta e condivisa già prima di partire, e questo mette in rilievo la funzione della guida.
(da Trasformare la mente p. 118)

Se c’è contatto e contemporaneamente distacco [Vairagya-yana], può svilupparsi la visione, cioè l’intuizione: il terzo occhio. Affinché ci sia visione, da non confondere col ragionamento, bisogna fare i conti con il cuore cioè con l’accettare le emozioni conoscendole, usandole e trascendendole. C’è visione quando riusciamo a ricondurre tutto in un punto di osservazione neutrale, senza eliminare nulla. Bisogna imparare a far scendere lo scandaglio dell’intuizione nel cuore, per discriminare le varie componenti dei nostri stati emotivi e generare così un ‘campo emotivo consapevole’. All’inizio è un campo di battaglia che poi deve divenire un campo di esperimenti, da accogliere nel silenzio. Chi sa essere più ampio delle proprie emozioni, perché è in grado di sentirle e contenerle, sviluppa potere. E grazie ad esso può iniziare a maneggiarle nella direzione che ha scelto, esattamente come fa il cuoco con gli ingredienti del suo pranzo.
(da Trasformare la mente p. 177-178)

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